lunedì 27 settembre 2010

billy corgan sono io

descrive tutto meravigliosamente il signor vandeerciuk.
non resta che condividere, divulgare, ricordare, apprezzare e ringraziare.


le vite degli altri

succede di leggere le ultime pagine di un libro e piangere in un affollato bus metropolitano. forse le lacrime non sono scorse, ma il pianto è pianto anche quando è secco. il racconto dello scrittore di successo descriveva la malattia e la fragilità del primo premier spagnolo del dopo franco, adolfo suarez, così simile alla parabola esistenziale del padre dello scrittore. due uomini colti nel declino fisico, eppure così fieri e dignitosi, descritti con soavità il primo e con amoroso rispetto il secondo. queste dense pagine sono state lo specchio in cui si è affacciato il mio dolore e il ricordo di mio padre. non ci è dato sapere, vivendo e soffrendo, in quali curiose reazioni a catena ci si può infilare. un ex primo ministro spagnolo ignaro di legare la sua personale sofferenza a quella di uno scrittore spagnolo, ignaro a sua volta di essere diventato la causa di un episodio imbarazzante come quello che mi ha coinvolto sull'autobus cittadino. mi piacerebbe aggiungere un anello alla catena emotiva e magari offrire un aggancio privato e personale a chi ha appena finito di leggermi.

(dedicato a chi, seduta accanto a me in una pizzeria trentina, mi diceva "meno rigore, più vita vissuta")

mercoledì 22 settembre 2010

il rigore

una partita importante, probabilmente una finale. una di quelle partite che sancisce la gioia di una comunità e dispensa sconforto e delusione ad un'altra. le sorti dell'incontro sono ad un bivio decisivo. c'è un rigore. uno di quei pochi momenti in cui il gioco cessa di essere gioco e diventa lo specchio distorto di qualcosa di più serio. la colpa, il giudizio, la punizione, l'attesa, la ricompensa. il gol o l'errore diventano l'espressione definitiva della giustizia e, contemporaneamente, riportano il gioco all'esatta ed originaria dimensione di gioco. il rigore ha l'arrogante potere di sospendere il tempo, dilatarlo, distorcelo fino a farlo diventare un contenitore sporco di ogni tipo di egoistico sortilegio. il centravanti confida nel suo tiro e nelle sue finte, ma in cuor suo invoca dio affinchè gli conceda un'accortezza ulteriore. pensa di meritarlo, l'intervento sovrannaturale, lui cresciuto sui campi polverosi della parrocchia e da sempre devoto. ma il centravanti non è solo, ha una figura speculare di fronte, solitaria come lui in quel momento. anche il portiere prega, alternando la preghiera alla concentrazione necessaria per mortificare l'avversario. nei pochissimi secondi che precedono il fischio dell'arbitro, tocca a dio decidere in quale direzione dispensare il suo supporto, giustificando poi perchè spesso la sua misericordia sia così sbilenca, così asimmetrica.

domenica 19 settembre 2010

l'ultima volta

È la vigilia di una importante battaglia. La tensione nel campo è avvertibile e nessuno osa cantare, parlare, mangiare e, se si potesse, nessuno neppure respirerebbe. Non c’è paura, ma solo quell’ansia precedente il grande evento. La mia si scioglierà solo sul campo, vedendo il sole sulle baionette, sentendo il rullo dei tamburini e il passo deciso della fanteria. D’improvviso nelle tende c’è agitazione: il generale vuole arringarci. Usciamo come spinti da una molla automatica che nessuno sa bene quando ci è stata installata, ma sembra di avercela avuta sempre. Per una serie di circostanze fortuite, riesco a ritrovarmi nella prima fila del plotone schierato perfettamente. Il generale si avvicina sbrigativo, per nulla solenne, come se volesse evadere la pratica in fretta, lui uomo di azione più che di parola. Non riesco ad ascoltare il grumo di calorose invettive perché mi soffermo ad osservare il generale. Non gli ero mai stato così vicino. Scorgo la sua corporatura rigonfia, malcelata dalla divisa perfetta. Riesco perfino a percepire un sibilo del respiro mentre parla, impercettibile già a qualche metro di distanza. Intuisco la peluria delle orecchie, alcune macchie sul viso. Mi raggiunge persino, a folate, il suo odore, un miscuglio di cuoio, stalla e alcol. È talmente vicino che tutto mi sembra terribilmente umano. Un rigurgito acido mi blocca il respiro e faccio fatica per non vomitare. Intanto la breve arringa è terminata con il giubilo e l’esaltazione collettiva. Urlo anch’io ma mi rendo subito conto che questa volta è diverso. Domani andrò in battaglia ma sarà, comunque vada, l’ultima volta.

venerdì 3 settembre 2010

do not disturb

sì, mi piacciono le camere d'albergo. uno spazio che fornisce intimità e sicurezza, un simulacro di casa in territori estranei. apprezzo gli sforzi di chi si preoccupa di ricreare un'atmosfera casalinga, rassicurante: le tende colorate, le stampe sui muri, il bollitore per il tè. a volte, durante le rare pause che una vacanza o un viaggio concedono, mi sdraio sul letto appena rinnovato e immagino che quelle stesse sensazioni avvolgenti abbiano coinvolto (più o meno coscientemente) coloro che hanno condiviso con me quello stesso spazio, quegli stessi oggetti. e penso alle diverse infinite possibili riflessioni (tenere, nostalgiche, divaganti) scaturite dalla contemplazione di un quadro o di un cassetto aperto. una stessa stanza che contiene milioni di case.

giovedì 2 settembre 2010

polaroid

nell'ozio estivo mi capita spesso di sfogliare alcuni vecchi album fotografici di famiglia. acconciature diverse, facce oltraggiosamente più giovani e vitali, vestiti dai colori improbabili che torneranno di moda al prossimo rigurgito vintage. e soprattutto tante foto in cui ero bambino. polaroid anni settanta, quelle che bisognava shakerarle per far affiorare l'immagine. mi guardo con uno strano sentimento di distacco: io sinceramente non mi ricordo di essere stato così piccolo, nè che voce avessi o che pensieri mi turbassero. il presente ha spesso la presunzione di ritenersi immutabile, sia verso il futuro che verso il passato. per cui mi illudo di essere stato sempre adulto così come sono ora, forse per augurarmi di restarlo per sempre.